Inclusione lavorativa – Le persone con storie di dipendenza

Orientamento e progettazione professionale in persone con storie di dipendenza

A cura di Ilaria Di Maggio, Università degli studi di Padova

I dati presentati dall’Ufficio antidroga delle Nazioni Unite (United Nations Office on Drugs and Crime – UNODC, 2016) mostrano come l’uso e l’abuso di droghe siano una realtà purtroppo presente a livello mondiale e che, in quanto tale, ogni nazione dovrebbe essere chiamata a prenderne coscienza e ad agire al fine di diminuire le ripercussioni che la dipendenza può avere nel benessere e qualità di vita di molti. In Europa, ad esempio, si stima che 17,1 milioni di giovani adulti abbiano fatto uso di droghe nel 2016 (European Observatory on Drugs, 2017), anche quando consideriamo le persone con storie di dipendenza effettivamente in trattamento, i dati del Dipartimento delle Politiche Antidroga Italiano (2016) confermano che l’uso patologico di sostanze stupefacenti è costantemente in aumento.

Con il termine “uso patologico di sostanze stupefacenti” si fa generalmente riferimento ad una modalità patologica dell’uso della sostanza che si caratterizza per (American Psychiatric Association; 2013):
•un’uso della sostanza spesso maggiore o per periodi prolungati rispetto a quanto previsto dalla persona;
•una grande quantità di tempo speso in attività necessarie a procurarsi la sostanza o a riprendersi dai suoi effetti;
•il fallimento nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa;
•un uso continuativo della sostanza nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o esacerbati dagli effetti della sostanza;
•l’abbandono o la riduzione a causa dell’uso della sostanza di importanti attività sociali, lavorative o ricreative;
•un uso ricorrente della sostanza in situazioni fisicamente pericolose;
•un uso continuato della sostanza nonostante la consapevolezza di un problema persistente o ricorrente, fisico o psicologico, che è stato probabilmente causato o esacerbato dalla sostanza stessa;
•tolleranza intesa come il bisogno di dosi notevolmente più elevate della sostanza per raggiungere l’effetto desiderato;
•episodi di astinenza.

Inoltre, si può parlare di uso patologico della sostanza secondo l’American Psychiatric Association (2013) quando lo stesso conduce a disagio o a compromissioni clinicamente significative.

Di fatto, l’uso “patologico” dalla sostanza comporta una serie di ripercussioni che generalmente possono mettere la persona ad alto rischio di sopravvivenza ed esporla maggiormente a condizioni di vita poco sodisfacenti e di qualità.

Le persone che fanno uso continuo di sostanze sono, di fatto, maggiormente esposte ad infarti, ipertensione, endocardite, ictus, immunodeficienze e malnutrizione. Esse sono anche maggiormente esposte a deficit neuro-cognitivi, in particolare nelle funzioni esecutive (Snyder, Miyake, & Hankin, 2015) che possono portare a sperimentare deficit in abilità utili in diversi domini di vita come ad esempio deficit nelle abilità di problem solving, di memoria, di apprendimento, di attenzione e di pianificazione (Motzkin, Baskin‐Sommers, Newman, Kiehl, & Koenigs, 2014).

Inoltre, sono diversi gli studi che mettono in evidenza alti livelli di comorbidità tra il disturbo da uso di sostanze e altre diagnosi psichiatriche (es. depressione, schizofrenia, disturbo bipolare; American Psychiatric Association, 2013).

L’uso e l’abuso continuo di sostanze potrebbe comportare anche ripercussioni nella sfera sociale dell’individuo. Di fatto, la dipendenza da uso di sostanze può causare una riduzione della rete sociale e dei supporti amicali e familiari su cui la persona può fare riferimento (American Psychiatric Association, 2013).

Infine, la dipendenza da uso di sostanze può provocare anche una serie di difficoltà a livello occupazionale e di progettazione di vita professionale e personale futura (e.g., Richardson, Wood, Montaner, & Kerr, 2012). A tal proposito, in letteratura è possibile trovare diversi studi che mostrano come le persone con una storia di uso di sostanze che riescono ad ottenere una buona integrazione nella sfera lavorativa sono anche più disposte a continuare il proprio percorso terapeutico-riabilitativo (Richardson et al., 2012; Shepard & Reif, 2004). Nello specifico, queste persone fanno riscontrare un maggior successo terapeutico e sono meno soggetti a ricadute (Richardson et al., 2012; Shepard, & Reif, 2004) e quindi sperimentano livelli più consistenti di soddisfazione di vita (Foster, Marshall, & Peters, 2000).

Di fatto, il piano d’azione antidroga europeo (European action plan, 2013) considera il reinserimento lavorativo come un elemento fondamentale delle strategie di intervento nelle problematiche del Disturbo da Uso di Sostanze, in quanto un uso patologico della sostanza può portare le persone con storie di dipendenza a sperimentare numerose barriere nel processo di pianificazione personale e professionale futuro, nonché nel riuscire a ricercare ed ottenere un lavoro dignitoso.

Richardson e colleghi (2012) indentificano tre complicazioni e sfide contestuali legate alla progettazione professionale tipiche delle persone con storie di dipendenza: quelle legate al trattamento, quelle legate al contesto sociale e quelle legate al mondo del lavoro.

Per quel che riguarda le barriere legate al trattamento, Richardson et al. (2012) mettono in evidenza come gli interventi riabilitativi in materia di dipendenza da abuso di sostanza siano molto rigidi in particolare quando all’interno degli stessi si fa uso di sostanze competitive (es. metadone). Nello specifico, le persone in cura per disturbo da uso di sostanza con sostanze competitive sono chiamate a recarsi spesso, anche giornalmente, nei servizi per la cura e la riabilitazione della dipendenza sia per poter effettuare diversi controlli legati all’uso della sostanza sia per poter usufruire della propria prescrizione di sostanze competitive. Inoltre, un’altra barriera legata al trattamento è proprio la mancanza e/o la riduzione dei finanziamenti ai programmi di riabilitazione professionale per persone con storie di dipendenza (Richardson et al, 2012; Shepard & Reif, 2004). Nonostante, in Italia ci sia un’attenzione istituzionale e legislativa in materia di integrazione lavorativa delle persone con storie di dipendenza (Art 124 del D.P.R. n. 309/90; Art 5 e 6 della legge del 5 Giugno 1990, n. 135; legge 381/91) negli ultimi anni a causa della crisi economica e delle politiche neoliberali si è osservata una riduzione del welfare (Mladenov, 2015) che ha messo in crisi le diverse politiche e azioni di reinserimento lavorativo.

Le barriere legate al contesto sociale fanno, invece, riferimento al pregiudizio verso le persone con storia di dipendenza. Le persone con storie di dipendenza, ad esempio, vengono considerate come inaffidabili, tendendti a perdere il controllo, riluttanti al cambiamento. Tale pregiudizio, purtroppo, è presente in diversi contesti di vita degli individui, da quelli familiari, a quelli sanitari e lavorativi (datori di lavoro, colleghi). Questi pregiudizi sembrano persistere anche quando la persona è in uno stato di “libertà dalla sostanza” (drug free), e sembrano influenzare fortemente la qualità della vita, la possibilità di trovare lavoro e la qualità del trattamento della stessa (Earnshaw, Bogart, Dovidio, & Williams, 2013).

Infine, ci sono le barriere associate al mercato del lavoro (Richardson et al, 2012; Shepard & Reif, 2004). A questo proposito, l’European Observatory on Drugs (2017) ha lanciato un vero e proprio allarme sui tassi di disoccupazione delle persone con una storia di uso di sostanza, mostrando come in Europa un consumatore su due è senza lavoro e vive in condizioni precarie e di estrema povertà. Questi dati sono confermati anche in Italia dove circa il 70% delle persone in trattamento per dipendenza da uso di sostanza sembra essere disoccupato o con lavoro occasionale e/o precario (Dipartimento Politiche Antidroga, 2015).

Insieme alle barriere legate al contesto, i professionisti dell’orientamento e della progettazione professionale devono considerare anche quelle che Richardson e colleghi (Richardson et al., 2012) definiscono barriere e sfide legate al cliente. Gli Autori mettono in evidenza come le persone con storie di dipendenza mostrano non solo bassi livelli di formazione, mancanza di esperienze lavorative, obiettivi professionali irrealistici, ma anche più bassi livelli di autostima, problem-solving, decision making e abilità sociali, quando confrontati con adulti senza storie di dipendenza.

Inoltre, Sgaramella, Ferrari e Ginevra (2015), focalizzando la loro attenzione sui processi di pianificazione futura personale e professionale, hanno mostrato come le persone con storia di dipendenza da sostanze hanno difficoltà a proiettarsi nel loro futuro considerando il loro passato e presente, a determinare i loro obiettivi futuri e a identificare strategie adattive per affrontare le diverse transizioni e richieste del mondo del lavoro. I risultati riportati da Sgaramella e colleghi (2015) sono in linea con quanto mostrato da Thomas e Rickwood (2016). Gli Autori, proponendo a 37 adulti con una storia di dipendenza da sostanze un’intervista semi-strutturata volta a indagare gli obiettivi e le speranze future nonché le risorse necessarie per il perseguimento degli stessi, hanno mostrato come i loro obiettivi fossero spesso inferiori rispetto alle loro possibilità future.

Tra gli obiettivi maggiormente citati ritroviamo il desiderio di un lavoro retribuito (con poca preoccupazione per il tipo di lavoro da svolgere), una casa sicura ma non di proprietà e, spesso, il desiderio di recuperare la custodia dei propri figli. Come riportato dagli autori, molti dei partecipanti coinvolti nello studio non sono stati in grado di articolare un futuro al di là delle circostanze attuali.

Le incertezze della loro vita hanno probabilmente plasmato il loro pensiero per il futuro, attraverso la mancanza di capitale finanziario e mediante una visione “deficitaria” di se stessi come se si considerassero in possesso di poche scelte e poche strategie per perseguire i loro obiettivi. Bryant e Ellard (2015), coinvolgendo 26 giovani con dipendenza da uso di sostanze e proponendo loro un’intervista semi-strutturata, hanno messo in evidenza come le storie delle persone con dipendenza da uso di sostanze sono caratterizzate da disgregazione familiare, abbandono, abuso, povertà, dipendenza e violenza, ma che allo stesso tempo sia possibile ritracciare nelle loro storie una sorta di speranza e motivazione finalizzata ad agire per creare un cambiamento positivo nel proprio futuro.

In conclusione, possiamo affermare che le barriere che le persone con storie di dipendenza sperimentano sono numerose e possono essere considerate frutto di una interazione reciproca e complessa tra individuo e contesto. Tale consapevolezza ha permesso di migliorare gli stessi interventi in materia di orientamento e progettazione professionale pensati per le persone con storie di dipendenza nel corso degli ultimi anni (Di Maggio, 2017).

Nello specifico, si è passati da modelli “speciali” che non consideravano la complessità delle variabili contestuali e personali in gioco nei processi di progettazione professionale delle persone con dipendenza, come ad esempio il “Work as Positive Outcome Model” all’interno del quale il lavoro e l’inclusione lavorativa e sociale venivano considerati come dei semplici outcome degli interventi più classici e clinici in materia di abuso di sostanza, a modelli che, anche se rimanevano intrappolati all’interno di “interventi speciali”, enfatizzavano maggiormente il bisogno di lavorare su abilità e punti di forza al fine di superare barriere personali e contestuali legate all’inserimento lavorativo proprie delle persone con storie di dipendenza, come ad esempio il “Work Infusion Model”.

Negli ultimi anni, si è iniziato a studiare e ad analizzare la possibilità di poter utilizzare interventi inclusivi di orientamento e progettazione professionale e personale futura basati sull’ approccio del Life design (Di Maggio, 2017; Hartung & Vess, 2016). Nello specifico, in questi interventi, i consulenti sono invitati, in primo luogo, a comprendere il contesto di vita, la rete di supporto sociale e le risorse rilevanti per il benessere generale del cliente. Successivamente, il consulente è chiamato ad aiutare i clienti a far emergere i loro punti di forza, gli aspetti positivi e le sfide affrontate con successo che sono affiorate dal racconto della loro storia di vita.

Nel caso di storie legate ad esperienze negative, i consulenti dovrebbero favorire una rielaborazione della loro esperienza, focalizzando l’attenzione sulle caratteristiche come la resilienza, la speranza, il coraggio e aiutando i clienti a riconoscere la difficoltà della situazione, evitando attribuzione negative, e aiutandoli ad identificare le barriere sistemiche e i pregiudizi sociali.

Tutto questo dovrebbe aiutare i clienti a ricostruire la propria storia in una lente positiva e ad iniziare a costruire la propria narrazione futura partendo dai propri punti di forza. Inoltre, tenendo conto della necessità e dell’importanza di promuovere l’inclusione lavorativa per le persone con vulnerabilità, è essenziale, secondo il paradigma del Life design, intervenire anche a livello contestuale, coinvolgendo i contesti sociali e lavorativi al fine di sviluppare atteggiamenti positivi verso la diversità e l’unicità delle persone promuovendo in tal modo migliori condizioni di lavoro e inclusione sociale. Di fatto, come mostrato recentemente da Santilli, Di Maggio, Ginevra e Nota (in press) esperienze positive di inclusione e una enfatizzazione degli aspetti positivi e del contributo possibile dei colleghi con vulnerabilità nel contesto lavorativo possono portare ad atteggiamenti più positivi e propensi alla collaborazione.

 

(da Sio-online.it)

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