Con l’Associazione Sine Modo e i suoi partner per esplorare la possibilità di co-progettare una rete locale di prossimità a sostegno dei percorsi di empowerment individuale, reinserimento lavorativo e orientamento di detenuti e persone in stato di marginalità nell’area della Bassa padovana, nell’ambito del progetto GREEN: Generare cambiamento, Rafforzare il volontariato, Essere E fare comunità, Nutrire speranze.


Accompagniamo CIDIS Onlus nel rafforzamento delle competenze delle operatrici e degli operatori impegnati nelle attività di orientamento e accompagnamento all’inclusione lavorativa e di quelli coinvolti nella rete territoriali di riferimento, in particolare nei Centri per l’Impiego e nel Servizi al Lavoro.


Il Decreto-legge 4/2019 introduce, all’articolo 4, comma 15, l’obbligo per i beneficiari del Reddito di Cittadinanza ad offrire, nell’ambito del Patto per il lavoro o del Patto per l’inclusione sociale, la propria disponibilità per la partecipazione ai Progetti Utili alla Collettività (PUC) a titolarità dei Comuni, da svolgersi presso il Comune di residenza.

Il volume contiene una raccolta di esperienze e buone prassi già realizzate o in corso di realizzazione su tutto il territorio nazionale, attraverso forme di volontariato, cittadinanza attiva, lavoro protetto ed altro, attuate nei Comuni, anche con l’apporto di Enti Pubblici e di Soggetti del Terzo Settore, assimilabili per uno o più aspetti ai principi cardine dei PUC.

La raccolta contiene anche una sezione dedicata a progetti a titolarità del Terzo settore o di altri soggetti.
Sebbene, infatti, per i PUC non sia prevista la possibilità di titolarità diversa da quella dei Comuni, la scelta è stata quella di includere anche spunti realizzabili in collaborazione con altri soggetti.

I progetti contenuti nella documento sono tratti da esperienze raccolte su base volontaria attraverso una rilevazione avviata da Anci e dalla Banca Mondiale.

La scelta dei progetti da condividere è stata lasciata ai titolari degli interventi nella consapevolezza che le esperienze di pochi possano diventare patrimonio di molti.


Orientamento e progettazione professionale in persone con storie di dipendenza

A cura di Ilaria Di Maggio, Università degli studi di Padova

I dati presentati dall’Ufficio antidroga delle Nazioni Unite (United Nations Office on Drugs and Crime – UNODC, 2016) mostrano come l’uso e l’abuso di droghe siano una realtà purtroppo presente a livello mondiale e che, in quanto tale, ogni nazione dovrebbe essere chiamata a prenderne coscienza e ad agire al fine di diminuire le ripercussioni che la dipendenza può avere nel benessere e qualità di vita di molti. In Europa, ad esempio, si stima che 17,1 milioni di giovani adulti abbiano fatto uso di droghe nel 2016 (European Observatory on Drugs, 2017), anche quando consideriamo le persone con storie di dipendenza effettivamente in trattamento, i dati del Dipartimento delle Politiche Antidroga Italiano (2016) confermano che l’uso patologico di sostanze stupefacenti è costantemente in aumento.

Con il termine “uso patologico di sostanze stupefacenti” si fa generalmente riferimento ad una modalità patologica dell’uso della sostanza che si caratterizza per (American Psychiatric Association; 2013):
•un’uso della sostanza spesso maggiore o per periodi prolungati rispetto a quanto previsto dalla persona;
•una grande quantità di tempo speso in attività necessarie a procurarsi la sostanza o a riprendersi dai suoi effetti;
•il fallimento nell’adempimento dei principali obblighi di ruolo sul lavoro, a scuola, a casa;
•un uso continuativo della sostanza nonostante la presenza di persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o esacerbati dagli effetti della sostanza;
•l’abbandono o la riduzione a causa dell’uso della sostanza di importanti attività sociali, lavorative o ricreative;
•un uso ricorrente della sostanza in situazioni fisicamente pericolose;
•un uso continuato della sostanza nonostante la consapevolezza di un problema persistente o ricorrente, fisico o psicologico, che è stato probabilmente causato o esacerbato dalla sostanza stessa;
•tolleranza intesa come il bisogno di dosi notevolmente più elevate della sostanza per raggiungere l’effetto desiderato;
•episodi di astinenza.

Inoltre, si può parlare di uso patologico della sostanza secondo l’American Psychiatric Association (2013) quando lo stesso conduce a disagio o a compromissioni clinicamente significative.

Di fatto, l’uso “patologico” dalla sostanza comporta una serie di ripercussioni che generalmente possono mettere la persona ad alto rischio di sopravvivenza ed esporla maggiormente a condizioni di vita poco sodisfacenti e di qualità.

Le persone che fanno uso continuo di sostanze sono, di fatto, maggiormente esposte ad infarti, ipertensione, endocardite, ictus, immunodeficienze e malnutrizione. Esse sono anche maggiormente esposte a deficit neuro-cognitivi, in particolare nelle funzioni esecutive (Snyder, Miyake, & Hankin, 2015) che possono portare a sperimentare deficit in abilità utili in diversi domini di vita come ad esempio deficit nelle abilità di problem solving, di memoria, di apprendimento, di attenzione e di pianificazione (Motzkin, Baskin‐Sommers, Newman, Kiehl, & Koenigs, 2014).

Inoltre, sono diversi gli studi che mettono in evidenza alti livelli di comorbidità tra il disturbo da uso di sostanze e altre diagnosi psichiatriche (es. depressione, schizofrenia, disturbo bipolare; American Psychiatric Association, 2013).

L’uso e l’abuso continuo di sostanze potrebbe comportare anche ripercussioni nella sfera sociale dell’individuo. Di fatto, la dipendenza da uso di sostanze può causare una riduzione della rete sociale e dei supporti amicali e familiari su cui la persona può fare riferimento (American Psychiatric Association, 2013).

Infine, la dipendenza da uso di sostanze può provocare anche una serie di difficoltà a livello occupazionale e di progettazione di vita professionale e personale futura (e.g., Richardson, Wood, Montaner, & Kerr, 2012). A tal proposito, in letteratura è possibile trovare diversi studi che mostrano come le persone con una storia di uso di sostanze che riescono ad ottenere una buona integrazione nella sfera lavorativa sono anche più disposte a continuare il proprio percorso terapeutico-riabilitativo (Richardson et al., 2012; Shepard & Reif, 2004). Nello specifico, queste persone fanno riscontrare un maggior successo terapeutico e sono meno soggetti a ricadute (Richardson et al., 2012; Shepard, & Reif, 2004) e quindi sperimentano livelli più consistenti di soddisfazione di vita (Foster, Marshall, & Peters, 2000).

Di fatto, il piano d’azione antidroga europeo (European action plan, 2013) considera il reinserimento lavorativo come un elemento fondamentale delle strategie di intervento nelle problematiche del Disturbo da Uso di Sostanze, in quanto un uso patologico della sostanza può portare le persone con storie di dipendenza a sperimentare numerose barriere nel processo di pianificazione personale e professionale futuro, nonché nel riuscire a ricercare ed ottenere un lavoro dignitoso.

Richardson e colleghi (2012) indentificano tre complicazioni e sfide contestuali legate alla progettazione professionale tipiche delle persone con storie di dipendenza: quelle legate al trattamento, quelle legate al contesto sociale e quelle legate al mondo del lavoro.

Per quel che riguarda le barriere legate al trattamento, Richardson et al. (2012) mettono in evidenza come gli interventi riabilitativi in materia di dipendenza da abuso di sostanza siano molto rigidi in particolare quando all’interno degli stessi si fa uso di sostanze competitive (es. metadone). Nello specifico, le persone in cura per disturbo da uso di sostanza con sostanze competitive sono chiamate a recarsi spesso, anche giornalmente, nei servizi per la cura e la riabilitazione della dipendenza sia per poter effettuare diversi controlli legati all’uso della sostanza sia per poter usufruire della propria prescrizione di sostanze competitive. Inoltre, un’altra barriera legata al trattamento è proprio la mancanza e/o la riduzione dei finanziamenti ai programmi di riabilitazione professionale per persone con storie di dipendenza (Richardson et al, 2012; Shepard & Reif, 2004). Nonostante, in Italia ci sia un’attenzione istituzionale e legislativa in materia di integrazione lavorativa delle persone con storie di dipendenza (Art 124 del D.P.R. n. 309/90; Art 5 e 6 della legge del 5 Giugno 1990, n. 135; legge 381/91) negli ultimi anni a causa della crisi economica e delle politiche neoliberali si è osservata una riduzione del welfare (Mladenov, 2015) che ha messo in crisi le diverse politiche e azioni di reinserimento lavorativo.

Le barriere legate al contesto sociale fanno, invece, riferimento al pregiudizio verso le persone con storia di dipendenza. Le persone con storie di dipendenza, ad esempio, vengono considerate come inaffidabili, tendendti a perdere il controllo, riluttanti al cambiamento. Tale pregiudizio, purtroppo, è presente in diversi contesti di vita degli individui, da quelli familiari, a quelli sanitari e lavorativi (datori di lavoro, colleghi). Questi pregiudizi sembrano persistere anche quando la persona è in uno stato di “libertà dalla sostanza” (drug free), e sembrano influenzare fortemente la qualità della vita, la possibilità di trovare lavoro e la qualità del trattamento della stessa (Earnshaw, Bogart, Dovidio, & Williams, 2013).

Infine, ci sono le barriere associate al mercato del lavoro (Richardson et al, 2012; Shepard & Reif, 2004). A questo proposito, l’European Observatory on Drugs (2017) ha lanciato un vero e proprio allarme sui tassi di disoccupazione delle persone con una storia di uso di sostanza, mostrando come in Europa un consumatore su due è senza lavoro e vive in condizioni precarie e di estrema povertà. Questi dati sono confermati anche in Italia dove circa il 70% delle persone in trattamento per dipendenza da uso di sostanza sembra essere disoccupato o con lavoro occasionale e/o precario (Dipartimento Politiche Antidroga, 2015).

Insieme alle barriere legate al contesto, i professionisti dell’orientamento e della progettazione professionale devono considerare anche quelle che Richardson e colleghi (Richardson et al., 2012) definiscono barriere e sfide legate al cliente. Gli Autori mettono in evidenza come le persone con storie di dipendenza mostrano non solo bassi livelli di formazione, mancanza di esperienze lavorative, obiettivi professionali irrealistici, ma anche più bassi livelli di autostima, problem-solving, decision making e abilità sociali, quando confrontati con adulti senza storie di dipendenza.

Inoltre, Sgaramella, Ferrari e Ginevra (2015), focalizzando la loro attenzione sui processi di pianificazione futura personale e professionale, hanno mostrato come le persone con storia di dipendenza da sostanze hanno difficoltà a proiettarsi nel loro futuro considerando il loro passato e presente, a determinare i loro obiettivi futuri e a identificare strategie adattive per affrontare le diverse transizioni e richieste del mondo del lavoro. I risultati riportati da Sgaramella e colleghi (2015) sono in linea con quanto mostrato da Thomas e Rickwood (2016). Gli Autori, proponendo a 37 adulti con una storia di dipendenza da sostanze un’intervista semi-strutturata volta a indagare gli obiettivi e le speranze future nonché le risorse necessarie per il perseguimento degli stessi, hanno mostrato come i loro obiettivi fossero spesso inferiori rispetto alle loro possibilità future.

Tra gli obiettivi maggiormente citati ritroviamo il desiderio di un lavoro retribuito (con poca preoccupazione per il tipo di lavoro da svolgere), una casa sicura ma non di proprietà e, spesso, il desiderio di recuperare la custodia dei propri figli. Come riportato dagli autori, molti dei partecipanti coinvolti nello studio non sono stati in grado di articolare un futuro al di là delle circostanze attuali.

Le incertezze della loro vita hanno probabilmente plasmato il loro pensiero per il futuro, attraverso la mancanza di capitale finanziario e mediante una visione “deficitaria” di se stessi come se si considerassero in possesso di poche scelte e poche strategie per perseguire i loro obiettivi. Bryant e Ellard (2015), coinvolgendo 26 giovani con dipendenza da uso di sostanze e proponendo loro un’intervista semi-strutturata, hanno messo in evidenza come le storie delle persone con dipendenza da uso di sostanze sono caratterizzate da disgregazione familiare, abbandono, abuso, povertà, dipendenza e violenza, ma che allo stesso tempo sia possibile ritracciare nelle loro storie una sorta di speranza e motivazione finalizzata ad agire per creare un cambiamento positivo nel proprio futuro.

In conclusione, possiamo affermare che le barriere che le persone con storie di dipendenza sperimentano sono numerose e possono essere considerate frutto di una interazione reciproca e complessa tra individuo e contesto. Tale consapevolezza ha permesso di migliorare gli stessi interventi in materia di orientamento e progettazione professionale pensati per le persone con storie di dipendenza nel corso degli ultimi anni (Di Maggio, 2017).

Nello specifico, si è passati da modelli “speciali” che non consideravano la complessità delle variabili contestuali e personali in gioco nei processi di progettazione professionale delle persone con dipendenza, come ad esempio il “Work as Positive Outcome Model” all’interno del quale il lavoro e l’inclusione lavorativa e sociale venivano considerati come dei semplici outcome degli interventi più classici e clinici in materia di abuso di sostanza, a modelli che, anche se rimanevano intrappolati all’interno di “interventi speciali”, enfatizzavano maggiormente il bisogno di lavorare su abilità e punti di forza al fine di superare barriere personali e contestuali legate all’inserimento lavorativo proprie delle persone con storie di dipendenza, come ad esempio il “Work Infusion Model”.

Negli ultimi anni, si è iniziato a studiare e ad analizzare la possibilità di poter utilizzare interventi inclusivi di orientamento e progettazione professionale e personale futura basati sull’ approccio del Life design (Di Maggio, 2017; Hartung & Vess, 2016). Nello specifico, in questi interventi, i consulenti sono invitati, in primo luogo, a comprendere il contesto di vita, la rete di supporto sociale e le risorse rilevanti per il benessere generale del cliente. Successivamente, il consulente è chiamato ad aiutare i clienti a far emergere i loro punti di forza, gli aspetti positivi e le sfide affrontate con successo che sono affiorate dal racconto della loro storia di vita.

Nel caso di storie legate ad esperienze negative, i consulenti dovrebbero favorire una rielaborazione della loro esperienza, focalizzando l’attenzione sulle caratteristiche come la resilienza, la speranza, il coraggio e aiutando i clienti a riconoscere la difficoltà della situazione, evitando attribuzione negative, e aiutandoli ad identificare le barriere sistemiche e i pregiudizi sociali.

Tutto questo dovrebbe aiutare i clienti a ricostruire la propria storia in una lente positiva e ad iniziare a costruire la propria narrazione futura partendo dai propri punti di forza. Inoltre, tenendo conto della necessità e dell’importanza di promuovere l’inclusione lavorativa per le persone con vulnerabilità, è essenziale, secondo il paradigma del Life design, intervenire anche a livello contestuale, coinvolgendo i contesti sociali e lavorativi al fine di sviluppare atteggiamenti positivi verso la diversità e l’unicità delle persone promuovendo in tal modo migliori condizioni di lavoro e inclusione sociale. Di fatto, come mostrato recentemente da Santilli, Di Maggio, Ginevra e Nota (in press) esperienze positive di inclusione e una enfatizzazione degli aspetti positivi e del contributo possibile dei colleghi con vulnerabilità nel contesto lavorativo possono portare ad atteggiamenti più positivi e propensi alla collaborazione.

 

(da Sio-online.it)


Orientamento e counseling in ottica comunitaria: contrastare stereotipi e favorire l’inclusione

A cura di Ernesto Lodi, Gian Luigi Lepri, Patrizia Patrizi

In tempi di profonde mutazioni e metamorfosi economiche e sociali, secondo Bonomi (2010), una comunità non può che raccogliere fino in fondo la sfida nel contrastare il progressivo e sempre più marcato indebolimento dei legami sociali. Reti sociali impoverite non caratterizzano più solo le aree di marginalità sociale facilmente riconoscibili, ma appaiono oramai trasversali a ben più ampie e impreparate fasce sociali che sempre più si scoprono vulnerabili, con le prevedibili implicazioni per le biografie personali.

Inclusione e coesione sociale tornano così a essere individuate come priorità da promuovere, rafforzare e tutelare, in vista del pieno sviluppo delle singole traiettorie di vita. A tale fine le nostre comunità dovrebbero essere: relazionali, partecipate, inclusive, fondate sulla responsabilità come presupposto e risultato di un’intenzionalità sociale di benessere di tutte le parti.

In tale contesto, vi sono vecchie e nuove marginalità con cui l’orientamento e il counseling non possono fare a meno di venire sempre più in contatto, come per esempio in tutti quegli interventi rivolti a persone che hanno incontrato il sistema giustizia. Se solo pensiamo al nostro mandato costituzionale riguardo la finalità rieducativa della pena, qualsiasi percorso di rieducazione non può prescindere (e questa, in definitiva, è la prassi) da un tentativo di inserimento o reinserimento nei percorsi formativi e professionali.

Ma tutto ciò, allo stato attuale, avviene al di fuori di percorsi strutturati di orientamento e di supporto professionale allo sviluppo di carriera. Per queste ragioni, e incidendo sul vissuto comunitario, l’ambito della giustizia rappresenta un focus non più rinviabile anche per le nostre discipline e andrebbe riconsiderato il ruolo del counselor nella rivisitazione dei modelli di sostenibilità sociale, psicologica, relazionale (in questo, d’altro canto, sta il fulcro dell’Agenda 2030) in tale ambito.

Ma quale può essere il legame tra sistema giustizia e lavoro del counselor? La visione trasformativa della giustizia riparativa (UNODC, 2006) apre a nostro avviso nuovi scenari di intervento anche in termini di counseling e orientamento. La concezione trasformativa, infatti, sfida chi opera al suo interno non solo a occuparsi delle pratiche per riparare il danno (obiettivo centrale nel paradigma della giustizia riparativa), ma anche a rivolgersi alle varie forme di ingiustizia strutturale e individuale che le persone vivono. Si tratta, dunque, da un lato affrontare i fattori di rischio comunemente associati al crimine, dall’altro di intervenire attraverso i principi e i valori della giustizia riparativa per migliorare il modo in cui le persone si relazionano a sé stesse, agli altri e al loro contesto. Secondo questa ottica si punta sia alla trasformazione interiore delle persone sia alla trasformazione sociale delle comunità in termini di inclusività, solidarietà, convivenza pacifica. Si può ben comprendere come le recenti evoluzioni dell’orientamento, e ci riferiamo in maniera particolare al contributo della psicologia positiva, focalizzandosi sul potenziamento in chiave preventiva e promozionale delle abilità e delle risorse psicosociali delle persone in vista dell’innalzamento dei loro livelli di qualità, ben si adatti a tale visione di giustizia riparativa.

Quali sono le possibili intersezioni tra l’orientamento e il counseling e la visione trasformativa della restorative justice? Innanzitutto le variabili di lavoro che potrebbero essere assunte nei processi di intervento. Potenziare a livello individuale e di gruppo per esempio resilienza, speranza ottimismo, coraggio, autoefficacia, permette di adottare come focus il benessere delle persone e la capacità di svilupparsi come migliori cittadini e cittadine possibili all’interno e con le comunità di riferimento. Esiste poi un contributo specifico che ha fornito la psicologia positiva nel campo del cambiamento di visione in persone che hanno commesso reati. Come riportato da Wright e Lopez (2002), la psicologia positiva ha ribaltato il tradizionale approccio volto alla ricerca di deficit e patologie, muovendosi piuttosto verso l’individuazione dei possibili punti di forza. In chiave sociale, le risorse positive sono importanti perché favoriscono il superamento di credenze e sentimenti dispregiativi nei confronti di chi ha commesso reato, evitando i processi di etichettamento e di co-costruzione di una identità prevalentemente deviante. Ancora, accrescere l’autostima permette il raggiungimento di obiettivi individuali o socialmente desiderabili, per esempio a scuola o a lavoro, e l’evitamento di condotte devianti, come per esempio la dipendenza da sostanze, e di altri comportamenti dannosi per sé e gli altri (Hewitt, 2002). Altre variabili come la resilienza permettono di contrastare e superare tutti quei fattori di rischio che spesso sono stati collegati alla maggiore probabilità di commettere crimini (lutti, povertà, etc.) e la speranza e l’ottimismo per esempio permettono di vedere molteplici strade alla risoluzione delle proprie difficoltà o alle proprie forme di realizzazione personale. Sono tutti concetti attuali e centrali nel lavoro di professionisti/e del counseling.

Lavorare in ottica preventiva sulle variabili della psicologia positiva permette in definitiva di operare sul benessere delle persone, valorizzando le risorse e i comportamenti orientati sia al loro sviluppo sia alla relazione con gli altri, all’adattamento migliore possibile ai contesti, diminuendo la probabilità che le persone vivano condizioni di malessere e agiscano comportamenti auto ed etero-dannegganti. Se analizziamo il ruolo del coraggio, appare ancor più evidente come esso ben si adatti allo stesso tempo sia al supporto delle scelte di carriera, sia all’intervento nella giustizia, sia al lavoro in ottica comunitaria. Il coraggio, già contrapposto da Zimbardo alla “banalità del male”, rappresenta le “forze del bene” per contrastare visioni stereotipate della realtà, mettere a disposizione del mondo e dell’umanità il proprio miglior Sé, agire in modo pro-sociale per combattere l’accettazione acritica, l’apatia pubblica e l’indifferenza, favorire i comportamenti prosociali. La valenza del coraggio consiste in una forma di “devianza positiva” perché non conforme alle aspettative condivise (consuetudini, norme non scritte etc.) per un fine di maggiore valore. Come riportano Spreitzer e Sonenshein (2003), permette di combattere stereotipi e pregiudizi che spesso ostacolano il cambiamento e la trasformazione delle persone. Il coraggio, e di conseguenza i comportamenti coraggiosi “in relazione”, facilitano le persone nell’essere più pronte ad affrontare rischi, precarietà, incertezza e instabilità, sensazioni queste aggravate anche dai processi di etichettamento sociale e di esclusione. Il coraggio, richiama la nostra responsabilità a occuparci dell’umanità e ad essere degli “eroi del quotidiano”, promuovendo nuove visioni delle realtà e, di conseguenza, nuove modalità di pensare e agire nel sociale anche come professionisti dell’orientamento.

In definitiva, tutte le variabili della psicologia positiva promuovono benessere, dando modo a chi opera all’interno della visione trasformativa della giustizia riparativa di poter supportare processi di cambiamento all’interno delle comunità di riferimento e contrastare le varie forme di vulnerabilità strutturali e transitorie. Counselor e operatori/operatrici, che adottano come modalità di lavoro la visione trasformativa della restorative justice, possono agire in vista di quel cambiamento interiore e della comunità di riferimento citato in precedenza. Orientamento e visione trasformativa della giustizia riparativa possono essere in grado di generare modelli virtuosi di cambiamento in una prospettiva di sostenibilità per tutte le componenti della società, colmando quel gap di professionalità attualmente presente nei processi di inserimento e reinserimento formativo e lavorativo. Si potrebbero adottare a tal fine nei nostri modelli di intervento prospettive positive considerato che le restorative practices si sono mostrate decisive per attivare le risorse nelle persone e nei loro contesti di appartenenza (famiglia, amici, lavoro, scuola, servizi, comunità, etc.) (Patrizi et al, 2016) e che le variabili della psicologia positiva appaiono strumento irrinunciabile per accrescere il loro benessere di vita e di carriera come dimostrano le ormai numerose ricerche in merito. La psicologia positiva, inoltre, si focalizza sul fatto che le persone possono cambiare e adattarsi, puntando sulle loro risorse psico-socio-relazionali, pietre miliari e al contempo fondamenta dei processi trasformativi della giustizia riparativa. Il lavoro su tali risorse, in chiave sia di intervento individuale/gruppale sia di sensibilizzazione comunitaria, faciliterebbe inoltre la possibile decostruzione di stereotipi e pregiudizi che costituiscono spesso la principale barriera che esclude e limita i percorsi di carriera e il benessere inclusivo.

A breve sarà pubblicato un capitolo “Supportare la costruzione di progetti di vita e di carriera inclusivi, solidali, sostenibili” nel testo a cura di Soresi, Nota e Santilli (in press.), dove descriveremo nel dettaglio alcune delle azioni dell’Università di Sassari, in collaborazione con la propria rete, che nel tempo ha deciso di facilitare e supportare le traiettorie di vita e di carriera delle persone in specifiche condizioni di vulnerabilità. Si approfondiranno interventi e riflessioni sul counseling come strumento di accompagnamento allo sviluppo dei progetti professionali nel contesto carcerario e all’interno di cooperative sociali che si occupano di problematiche legate alla dipendenza di sostanze o di minori che sono venuti a contatto con il sistema giustizia. L’obiettivo comune è quello dell’inclusione attraverso il coinvolgimento della comunità e di tutte le parti interessate e la conseguente sensibilizzazione alla valenza dei percorsi di carriera nei percorsi di reinserimento, elementi imprescindibili per un effettivo e significativo impatto delle azioni di orientamento in condizioni di vulnerabilità. Spesso, infatti, causa del “fallimento” di tali percorsi è il mancato superamento di stereotipi e barriere culturali all’interno della comunità di riferimento che ostacolano il reinserimento formativo e professionale delle persone che hanno incontrato il sistema giustizia nel loro percorso di vita. Centrale nel capitolo citato è il riferimento al possibile contributo dell’orientamento e del counseling per attivare, in linea con gli obiettivi dell’agenda 2030, buone pratiche di sviluppo sociale ed educativo sostenibile. Finalità più ampia è la promozione del benessere di persone e comunità. L’obiettivo in tali contesti consiste nel creare spazi dove possano convergere gli interventi tra Restorative Justice e orientamento, generando nuovi concetti e nuovi strumenti in grado di promuovere benessere nelle persone e nelle loro comunità di riferimento e contrastare le sempre più estese forme di vulnerabilità.

 

(da SIO-online.it)


Pubblicato il report di Veneto Lavoro sulla condizione dei lavoratori disabili nel territorio

Al 31 dicembre 2018 le persone con disabilità occupate in Veneto risultano complessivamente 36.876, di cui 7.839 in provincia di Padova (21%), 7.051 in quella di Vicenza (19%), 6.651 a Verona (18%), 6.502 a Treviso (18%), 5.786 a Venezia (16%), 1.734 a Belluno (5%) e 1.313 a Rovigo (3%). Si tratta prevalentemente di uomini (59%) di età avanzata (63% con più di 50 anni) e con una percentuale di disabilità inferiore al 66%. Risultano per la quasi totalità assunti con contratto a tempo indeterminato (93%), con qualifica di impiegato (30%) e nel settore dei servizi (53%). Uno su tre è occupato con contratto a part time (32%). L’industria occupa il 46% delle persone con disabilità, il solo metalmeccanico ne occupa il 27%. Le donne rappresentano oltre la metà degli occupati disabili nei settori del commercio e tempo libero, nei servizi alla persona e in altri comparti del terziario, mentre hanno quote inferiori a un quarto degli occupati nelle industrie estrattive, nelle costruzioni, nel metalmeccanico. Il 76% è occupato nel settore privato, uno su quattro in quello pubblico.

È quanto emerge dal report dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro di Veneto Lavoro, i cui risultati, pur avendo un carattere di provvisorietà, consentono di delineare il quadro dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità in Veneto.

La normativa vigente stabilisce che tutti i datori di lavoro con almeno 15 dipendenti sono obbligati ad assumere un numero di disabili (quota di riserva) in funzione della dimensione d’impresa: 1 disabile da 15 a 35 dipendenti, 2 disabili da 36 a 50 dipendenti, 7% dei lavoratori occupati da 51 dipendenti in su. Sono tuttavia previste condizioni di esonero o sospensioni, ad esempio per le imprese in crisi, e compensazioni territoriali per imprese multilocalizzate. La gestione dell’obbligo, inoltre, può avvenire mediante la stipula di apposite convenzioni con strutture pubbliche competenti o affidando commesse di lavoro alle cooperative sociali di tipo B (composte per almeno il 30% da lavoratori in condizioni di svantaggio).

Le aziende che occupano lavoratori disabili in Veneto risultano complessivamente 17.722. Di queste, solo 10.989 sono tenute all’obbligo di assunzione, per un totale di posti riservati alle persone con disabilità (“riserva”) pari a 42.727 posizioni lavorative, di cui 27.597 coperte. Circa un migliaio di posizioni lavorative coperte da lavoratori con disabilità riguardano invece quasi 7 mila aziende non tenute all’obbligo. I posti scoperti risultano così 14.189, per un tasso di scopertura, ovvero rapporto tra posizioni scoperte e posizioni riservate, pari al 33%. Delle quasi 11 mila imprese tenute all’obbligo, 6 mila (il 55%) hanno assolto l’obbligo di assunzione, mentre 2.800 (25% del totale), prevalentemente di piccole dimensioni e con una sola posizione riservata, hanno un tasso di scopertura del 100%. Al netto di esoneri, convenzioni e altri strumenti di compensazione le posizioni scoperte si riducono però a 7.710, per un tasso di scopertura netto che scende al 18%, con variazioni territoriali comprese tra il 22% di Venezia e il 12% di Belluno e Rovigo. A questo risultato contribuisce anche l’attività di convenzione tra Centri per l’Impiego e aziende, realizzata attraverso diversi strumenti e che rappresenta una caratteristica peculiare del sistema dei servizi per il lavoro del Veneto.

Tra gli strumenti attivati a livello regionale per agevolare l’integrazione lavorativa delle persone con disabilità si annoverano gli stage aziendali, che nel periodo di attuazione consentono all’azienda ospitante di poterli considerare nel computo delle posizioni coperte. Nel triennio 2016-2018 gli stage attivati ai fini dell’integrazione lavorativa sono stati complessivamente circa 1.700. Il 62% degli stagisti ha avuto un contratto di lavoro con l’azienda ospitante a seguito del tirocinio, il 15% dei quali a tempo indeterminato. Un altro rilevante intervento per favorire la partecipazione attiva e l’accesso al mercato del lavoro da parte delle persone con disabilità iscritte alle liste di collocamento mirato è stato finanziato nel 2017 dalla Regione del Veneto e prevedeva azioni di informazione e orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro. La misura ha coinvolto oltre 7 mila persone, di cui il 45% era rappresentato da donne, e il 23% di queste risultava aver instaurato un rapporto di lavoro dipendente entro 12 mesi dalla conclusione del percorso.

disabili in condizione di disoccupazione e iscritti al collocamento mirato al 31 dicembre 2018 risultano 28.908, di cui circa 2.000 con uno stage in corso e 1.400 con un rapporto di lavoro aperto compatibile con il mantenimento dello stato di disoccupazione. Si tratta prevalentemente di maschi (57%), italiani (91%), con età superiore ai 30 anni (91%) e una distribuzione sostanzialmente omogenea sul territorio regionale. Si tratta, come per la generalità degli utenti iscritti ai Centri per l’Impiego, di un numero sovrastimato in quanto in molti casi non viene segnalato agli operatori un passaggio dalla disoccupazione all’inattività o alla professione autonoma (pensionamenti, condizioni di salute, limiti di età ecc.). Negli ultimi tre anni il flusso di iscrizioni è pari a circa 5.500 l’anno, di cui circa 4.000 iscritti per la prima volta. Entro 12 mesi il 61% degli iscritti ha avviato un rapporto di lavoro o un tirocinio, il 37% entro tre mesi.

Nonostante dai dati emerga come il monitoraggio della condizione lavorativa e della ricerca di occupazione da parte delle persone con disabilità sia ancora un cantiere aperto, è possibile trarre alcune considerazioni conclusive. In primo luogo, la presenza di oltre un migliaio di lavoratori con disabilità anche nelle aziende non tenute all’obbligo mostra un rilevante passo avanti culturale, anche per merito delle misure di orientamento, formazione, inserimento lavorativo e tirocinio sperimentate in questi anni. I Centri per l’Impiego pubblici possono svolgere un ruolo di supporto importante, sia per le imprese che per i lavoratori con disabilità, ancor più oggi che sono garantiti servizi e procedure uniformi e omogenee su tutto il territorio regionale. Il rispetto della normativa va inoltre perseguito con tutti gli strumenti economici e operativi disponibili, nonché con azioni di sensibilizzazione, testimonianze positive e interventi di formazione da tenersi nei CPI sul tema del disability management. Si rende infine necessario un tentativo di rispondere non solo ai bisogni presenti dei lavoratori disabili, ma anche al quesito sul futuro che si pongono le famiglie delle persone con disabilità, il “cosa accadrà dopo di noi”, che rappresenta una sfida sia in termini di inclusione lavorativa che di risposta sociale.

Scarica il Rapporto Misura 87_disabili